lesione autodeterminazione

Lesione dell’autodeterminazione? Non basta dirlo

Cosa dice davvero l’ordinanza n. 15079/2025 della Cassazione

Immaginate di salire su un treno. Il capotreno vi ha spiegato a grandi linee la destinazione, ma non vi ha detto che ci sarebbero state fermate intermedie, né che avreste potuto scegliere un percorso alternativo. Scopritelo solo a viaggio finito — quando qualcosa è andato storto. Avreste preso quel treno?

Ecco, in fondo, è questo che accade quando il consenso informato è lacunoso: il paziente parte per un percorso diagnostico o terapeutico senza sapere davvero dove sta andando.

Ma – e qui entra in gioco l’ordinanza della Cassazione – non basta dire di non essere stati informati per avere diritto a un risarcimento.

Cosa ha stabilito la Corte?

Con l’ordinanza n. 15079 del 5 giugno 2025, la Terza Sezione Civile ha ribadito un principio preciso quanto spesso ignorato:

La lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente non è risarcibile in re ipsa.
Serve dimostrare che da quella mancanza è derivato un danno concreto.

La Corte dice con chiarezza:

  • , il consenso informato è un dovere medico e un diritto del paziente;

  • , la sua mancanza può essere grave;

  • Ma no, non è sufficiente per ottenere un risarcimento.

Occorre andare oltre: il paziente deve dimostrare che, se correttamente informato, avrebbe fatto una scelta diversa, e che questa scelta avrebbe evitato o ridotto il danno.

Il fatto giuridico non basta. Serve il fatto umano.

Questo orientamento della Cassazione – in linea con altre pronunce come la n. 28985/2019 – segna un punto di equilibrio tra due esigenze fondamentali:

  • Evitare automatismi risarcitori, che ridurrebbero la responsabilità sanitaria a un gioco formale di firme e moduli;

  • Salvaguardare il diritto profondo del paziente a decidere sul proprio corpo, in modo libero, consapevole e non condizionato.

La Corte ci ricorda che il diritto all’autodeterminazione non è un mantra, ma un diritto soggettivo che assume rilevanza giuridica solo quando da quella lesione scaturisce un pregiudizio concreto.

E se il paziente avrebbe scelto lo stesso?

La domanda chiave che ogni giudice (e ogni avvocato) deve farsi è:

“Cosa sarebbe successo se il paziente fosse stato informato correttamente?”

Se la risposta è: avrebbe comunque scelto quel trattamento, allora il danno non c’è, o non è causalmente collegato alla carenza informativa.

Non si tratta di negare dignità al diritto all’informazione, ma di evitare che diventi una scorciatoia risarcitoria scollegata dal fatto clinico.

La parola d’ordine? Coerenza.

Con questa ordinanza, la Cassazione invita tutti – medici, avvocati, pazienti e giudici – a rispettare la complessità del consenso informato.
Non basta una firma.
Non basta neppure l’assenza della firma.
Ci vuole un racconto coerente, documentato, comprensibile.
E soprattutto: ci vuole prova del danno.

In conclusione
L’autodeterminazione è un diritto profondo. Ma nel processo civile, come in medicina, nulla si dà per scontato. Serve prova. Serve nesso. Serve rigore.

E serve, più di tutto, rispetto per la verità della relazione di cura


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